Fast fashion sotto accusa? Niente di cui meravigliarsi, perché la tendenza ultra-decennale che ha rivoluzionato il modo in cui acquistiamo capi di abbigliamento (e soprattutto come vengono realizzati) è arrivata al punto limite, con il grande pubblico che finalmente inizia ad interrogarsi sull'effettiva sostenibilità di questa pratica. Il Fast Fashion è ovunque, ma fortunatamente molti brand, in particolare quelli mediaticamente più esposti, hanno introdotti piani seri di transizione digitale, dandosi obiettivi chiari e tempi di raggiungimento. E questo potrebbe significativamente cambiare le cose. Con Fast Fashion si fa riferimento alla realizzazione di capi ormai al di fuori del ciclo delle due stagioni della moda, realizzati in genere a basso costo, per permettere a tutti di acquistare più guardaroba nel corso dell'anno. Una tendenza che è stata sposata da molti grandi marchi, ma che al tempo stesso ha un impatto enorme sull'ambiente. L'industria della moda rimane infatti una delle più inquinanti del mondo, sia a causa dell'importante quantità di rifiuti prodotta, sia a causa del ricorso a molti agenti chimici durante le fasi di produzione e lavaggio. Senza dimenticare anche lo sfruttamento, in genere in paesi in via di sviluppo, della manodopera e degli addetti. E il consumo di acqua. Un mondo della moda nascosto agli occhi dei più, ma che oggi impareremo a conoscere. Fast Fashion: moda tutto l'anno L'idea di base sarà sembrata geniale agli uffici del marketing: produzione a ciclo continuo, durante tutto l'anno, di abbigliamento a basso costo, per cambiare quello che era il paradigma delle vecchie generazioni, ovvero quello di acquistare capi fondamentalmente due volte l'anno, seguendo le macro-stagioni. Vestiti per tutti, disponibili sempre e a basso costo: un'idea che sarà sembrata vincente a molti ma che invece ha reso ancora più inquinante una delle industrie più dure sull'ambiente, quella della moda e dell'abbigliamento. Gli effetti del fast fashion sono oggi sotto gli occhi di tutti: produzioni a bassissimo costo in paesi dove la manodopera costa poco e viene sfruttata per pochi dollari al giorno. Prodotti chimici riversati direttamente in fiumi, laghi e mari, con tinture e principi attivi per il lavaggio che hanno ormai distrutto interi ecosistemi. Senza parlare dell'enorme quantità di vestiti da smaltire, sia perché acquistati in eccesso, sia perché non durevoli a causa della bassa qualità con la quale vengono realizzati. La ricetta perfetta per un disastro che finalmente, oggi, è sotto gli occhi di tutti e che sta costringendo diversi brand a fare marcia indietro e a staccarsi da queste logiche. Fast Fashion come inquinamento La questione forse più pressante, almeno per proporzioni, è quella dell'inquinamento. L'industria tessile ricorre al massiccio utilizzo di prodotti inquinanti, dal cloro ai principi attivi utilizzati in lavaggio, come fissanti per il colore oppure ancora per ottenere determinati effetti. Un'industria che ha fatto pagare il prezzo della sua enorme espansione all'ambiente, spostandosi di volta in volta in paesi dove i controlli sono sempre minori e dove si può spesso inquinare impunemente. Con danni all'ambiente che sono ormai da tempo oltre il punto di non ritorno, al punto tale da aver fatto sollevare proteste anche da parte di governi che erano sempre stati compiacenti con l'industria. Anche i trasporti, con colli voluminosi che attraversano il globo, contribuiscono a questo quadro molto fosco e che ha bisogno oggi dell'impegno di tutti per essere migliorato. Navi che portano dal lontano oriente capi in occidente, consumando combustibile per capi dei quali, a conti fatti, non avremmo neanche bisogno. Per quanto riguarda l'utilizzo di agenti chimici dannosi, l'industria tessile ha provato a rispondere con il ricorso ad una nuova generazione di prodotti, maggiormente biodegradabili e che scelgono principi attivi naturali, ma che naturalmente fanno lievitare i costi e dunque operano in senso contrario al mantra del Fast Fashion. Sfruttamento: condizioni di lavoro pericolose e storie che nessuno vorrebbe leggere Anche per quanto riguarda la componente umana di questa specifica industria e di questo specifico modo di creare capi di abbigliamento siamo all'anno zero. Le produzioni si sono spostate da tempo verso paesi emergenti dove il costo della manodopera è basso, dove gli operai possono essere sfruttati e dove non possono chiedere condizioni di lavoro sicure. Il risultato sono diversi disastri, con conseguenze a volte anche letali, verificatisi nei paesi dove le produzioni sono più concentrate, come India, ma anche Bangladesh e Pakistan. E su questo ci sarà ancora molto da lavorare. Il pubblico è sempre più attento a queste tematiche e se il Fast Fashion non cambierà i suoi paradigmi potrà anche cessare di esistere. Tutto questo mentre in Unione Europea si inizia a discutere di un tetto massimo alle importazioni di abiti da certi paesi, con l'obiettivo di contenere questo fenomeno. Noi come consumatori possiamo fare la nostra parte e iniziare a scegliere con maggiore coscienza i prodotti che indosseremo, comprare anche abbigliamento usato, rimettere in vita i nostri vestiti ancora in buono stato, ricordandoci che anche la fase di cura e lavaggio può impattare fino al 25% dell'emissioni della CO2. Con i piccoli gesti quotidiani, possiamo fare le grandi rivoluzioni.#GoforPlanetA